Grazie a Edo Giovannini (del quale cercheremo di farvi conoscere la vita e la carriera il più presto possibile), abbiamo saputo qualcosa di più su un personaggio emblematico del secolo scorso, uno degli ultimi artigiani del ciclismo che ha vissuto lontano dal successo mediatico ma che ha contribuito a quello dei più grandi campioni.
Luigi Colombini nacque a Lunata (Lu) nel 1911 e cominciò da ragazzo ad imparare il mestiere di calzolaio. Insieme alla professione coltivava anche la passione per il ciclismo, correndo come dilettante per l’Unione Sportiva Lucchese, dove apprese che poteva applicare le conoscenze del suo lavoro allo sport. In quei tempi di ciclismo “eroico”, le scarpe non erano tecnicamente all’altezza degli sforzi compiuti dai ciclisti e tendevano a flettersi, causando bruciori e di conseguenza insopportabili vesciche. Dopo vari esperimenti, Colombini riuscì a perfezionare un oggetto che seppe rivoluzionare lo standard dell’epoca: con una lastra di acciaio inserita fra due suole, la scarpa non si fletteva più e il bruciore che formava le vesciche veniva definitivamente eliminato. La voce di questa innovazione si sparse a macchia d’olio e in breve tempo Colombini passò dall’essere un semplice ciabattino ad un calzolaio specializzato.
Nel suo laboratorio pieno di ritagli di fior di pelle, riusciva a realizzare un paio di scarpe al giorno, dopo aver accuratamente preso le misure del committente e modellato la calzatura su forme di legno. Come ci racconta Giovannini: “Ti prendeva la forma della pianta dei piedi, poi dopo qualche giorno le scarpe erano pronte per correrci…ricordo come fosse adesso la semplice rapidità del gesto con cui faceva le stringhe.”
Dal dopoguerra in poi, l’arte di Colombini diventò un punto di riferimento per i ciclisti a livello mondiale ed è quasi impossibile trovare il nome di un grande campione che non sia entrato nel laboratorio di Lunata. Pare che l’unica eccezione fu Beppe Saronni, ma non ne conosciamo i motivi.
Colombini ci ha lasciati nel 1980 e con lui se n’è andato un personaggio, come ne abbiamo avuti tanti in Italia, capace di dimostrare quanto l’ingegno personale e la creatività possano essere importanti in un mondo ormai assoggettato alla produzione industriale.